Il confine che cura: scoprire la forza del no
“Se dico no, ferisco. Se dico no, deludo. Se dico no, rischio di perdere l’altro”.
Quante volte queste frasi ci attraversano in silenzio, mentre annuiamo con un sorriso e una stretta allo stomaco?
Dire “no” può sembrare un gesto semplice, ma dentro questa piccola parola si agitano mondi interi: il timore di deludere, il desiderio di essere accolti, l’eredità di chi ci ha insegnato che essere buoni significava dire sempre “sì”. Ma anche, più profondamente, l’idea che l’amore – o il valore personale – si guadagni restando, facendo, accogliendo sempre. Come quando ci viene chiesto un favore a fine giornata e invece di dire che siamo troppo stanchi, rispondiamo “Certo, ci penso io”, ignorando il bisogno di pausa che sentiamo dentro. Perché un rifiuto, anche lieve, ci sembra troppo.
Molti di noi sono cresciuti con l’idea che essere “buoni” significasse essere accomodanti. Che il nostro posto nel cuore degli altri fosse garantito dalla nostra capacità di esserci, sempre e comunque. Anche quando stanchi. Anche quando contrariati. Anche quando il tempo mancava o avevamo altri bisogni. Anche quando quel “sì” ci costava fatica. Anche quando qualcosa dentro di noi diceva “non posso”. Come quando ti chiedono un passaggio… di nuovo. Non ti fa comodo, richiede una deviazione, un tempo che non hai. Ma dici sì, come le altre volte. Perché cambiare ora? Perché far notare il disagio? Così taci e guidi. Ma dentro cresce una stanchezza che non è solo fisica.
E se, per una volta…
… dicessimo no?
Chissà quante strade nuove si potrebbero dispiegare di fronte a noi…
Un semplice monosillabo: no.
No…
NO
Non è facile però. Dire “no” richiede innanzitutto ascolto di sé. E coraggio, molto coraggio. Perché significa esporsi: mostrarsi meno perfetti, meno disponibili, meno “buoni”. Eppure, dire no è un atto di consapevolezza: è riconoscere che c’è un confine tra l’altro e me, tra il suo bisogno e il mio sentire.
È una linea che dice: “Ti vedo, ma mi vedo anche io”.
Nel percorso psicologico spesso questo tema emerge. Le persone arrivano esauste, prosciugate da relazioni sbilanciate. Hanno detto troppi sì. Per paura di ferire, di essere giudicate, di restare sole. C’è chi racconta di essersi sempre reso disponibile per i colleghi, prendendosi carichi di lavoro extra, finché il lavoro ha iniziato ad invadere ogni spazio, e non si è più capito dove finiva il dovere e dove iniziava il respiro. C’è chi, in famiglia, ha detto sì per anni a ogni pranzo da organizzare, ogni festività da ospitare, fino a non sentire più casa propria come un luogo di riposo. C’è chi, tra amici, ha sempre ascoltato tutti, risposto a ogni messaggio, raccolto ogni sfogo anche a notte fonda, finché un giorno ha sentito che non aveva più parole nemmeno per sé.
Ma ogni sì detto senza sentirlo davvero lascia una piccola traccia. Un passo fatto un po’ più lontano da sé. E col tempo, queste tracce si accumulano. Il corpo le sente. Le restituisce con forme sottili: un’irritazione inspiegabile, una stanchezza che non passa, quella sensazione sfumata di esserci sempre… ma mai del tutto.
Il confine dunque non è una barriera, è una forma di rispetto.
Perché solo riconoscendo fino a dove posso essere, posso esserci davvero. Il resto rischia di essere presenza svuotata, disponibilità apparente; corpo che cede mentre l’anima indietreggia. Imparare a dire no senza sentirsi in colpa è un percorso lento, faticoso e fatto di piccoli gesti quotidiani. Di ascolto prima di risposta. Di domande come: “Sto dicendo sì per paura o per scelta?”. È un esercizio continuo, non s’impara certo in un giorno.
E spesso non si tratta di rivoluzionare tutto, ma di iniziare da un no piccolo, detto in un luogo dove ci sentiamo al sicuro. Come dire “no, non oggi, mi serve riposo” ad un amico che ci ha sempre visti disponibili. E darci la possibilità, in quel gesto semplice, di scoprire che nulla si rompe. Che possiamo sottrarci, senza sparire. Che la relazione tiene, anche se non rispondiamo come sempre; che il mondo non crolla e l’altro può restare anche se lo deludiamo un po’.
Il paradosso è che, quando impariamo a dire no, le relazioni si fanno più vere. Più sane. Perché smettono di essere basate sull’adattamento e iniziano a fondarsi sull’incontro.
Due persone intere, non una che si modella sull’altra.
Dire no, allora, diventa non un rifiuto, ma una dichiarazione. Di chi siamo. Di cosa possiamo. Di quanto valiamo. E questa, forse, è la più autentica forma di cura.
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