Il coraggio di chiedere aiuto

Qualche giorno fa, di prima mattina, ero in un caffè, nel mio angolo preferito, in compagnia di un cappuccino e un buon libro. E così, mentre ero immersa nella mia bolla di tranquillità, mi sono trovata ad essere spettatrice involontaria di una conversazione tra due amiche, sedute proprio al tavolo di fronte al mio. “In questo periodo sono confusa”, ha confessato una delle due – lanciando uno sguardo carico di emotività all’altra – “So che potrebbe essere utile parlare con uno psicologo, ma qualcosa mi trattiene. Non so, forse è la paura del giudizio o l’idea che chiedere aiuto sia un segno di debolezza…”. E proprio in quel momento, in modo così surreale che sembrava quasi scritto da uno sceneggiatore, mi sono resa conto che ero lì, seduta al loro fianco: una psicologa. Non volevo origliare oltre, ho pagato il mio cappuccino e sono uscita dal locale. Le parole di quella ragazza hanno però continuato a farmi compagnia, in fondo riflessioni simili, timori affini hanno spesso fatto capolino tra le mura dello studio dove lavoro: “Avrei voluto iniziare prima, ma…”, ecco il punto è proprio quel “ma”, ma iniziare un percorso psicologico non sempre è facile. Alcune preoccupazioni, forse più comuni di quello che possiamo immaginare, possono creare una barriera che rischia di separarci dal cercare e dal trovare il supporto di cui abbiamo bisogno.

 

Come mai trovare il coraggio di rivolgersi ad uno psicologo può risultare così intricato?

Nella maggior parte dei casi non è invece difficile richiedere un aiuto quando è il nostro fisico ad essere in sofferenza, e personalmente non ho mai sentito due sconosciuti discutere dicendo: “Ho la febbre, ma qualcosa mi trattiene dal consultare un medico”. La riflessione della ragazza al bar ha colto un aspetto fondamentale di questa disparità: la paura del giudizio altrui. Purtroppo, il campo della psicologia e della salute mentale continua a subire l’influenza di preconcetti che, come ostinata erba infestante, si dimostrano sorprendentemente resistenti nel tempo. Nonostante i notevoli progressi nel modo in cui la società affronta la salute mentale, persiste ancora, in qualche angolo nascosto, l’ombra sottile della stigmatizzazione: il timore di essere etichettati. Credo che, in una certa misura, questa inquietudine sia il frutto della nostra eredità culturale. Siamo discendenti di epoche in cui la salute mentale è stata spesso avvolta in un groviglio di superstizioni, sia laiche che religiose, che hanno purtroppo generato conseguenze avverse per coloro che si trovavano in situazioni di difficoltà. Nonostante gli sforzi profusi per smantellare pregiudizi e stereotipi, sopravvive ancora il timore che ciò che è differente o poco compreso possa essere oggetto di occhiatacce, chiacchiere sussurrate e dubbi malcelati. Oltre a questo, ritengo che taluni possano percepire la ricerca di supporto psicologico come un diritto riservato esclusivamente a chi sta affrontando una condizione grave. Questo fraintendimento, purtroppo, può spingere molte persone a trascurare i primi segnali di disagio emotivo o a posticipare nel tempo l’inizio di un percorso.

Ma cosa significa “condizione grave”? Possiamo davvero definirla?

Personalmente credo che la sofferenza vada considerata in termini di esperienza soggettiva e personale. Così facendo, diventa essenziale abbracciare la nostra unicità: ognuno di noi affronta sorgenti di dolore che sono proprie. In questo scenario, emerge un imperativo fondamentale: dare riconoscimento e dignità alla nostra esperienza emotiva, senza cadere nell’inganno dell’auto-giudizio. La complessità nella ricerca di un supporto psicologico è quindi ampiamente influenzata dal giudizio, sia quello che temiamo possa provenire dagli altri, sia quello che, paradossalmente, spesso applichiamo a noi stessi. La ragazza del bar, è però andata avanti nella sua riflessione, aggiungendo che, a renderla restia a contattare uno psicologo vi fosse: “…l’idea che chiedere aiuto sia un segno di debolezza…”. Credo che in una società come la nostra, governata da concetti come “fare”, “performare” ed “apparire”, vi sia poco spazio per mostrare segnali di debolezza. Questo apre però ad una riflessione che necessita di uno spazio a sé. Esplorerò quindi in un nuovo focus il rapporto tra debolezza e società e come questo possa, in alcuni casi, influenzare la decisione d’intraprendere un percorso psicologico.

Probabilmente non ne è consapevole, ma credo che la ragazza del bar abbia iniziato ad affrontare le sue debolezze e fragilità proprio quella mattina, aprendosi con la sua amica di fronte a una tazzina di caffè. Chissà dove questo potrà portarla. Chissà se troverà il coraggio di chiedere l’aiuto di cui sente il bisogno. A lei e a tutte le persone che si trovano in una situazione simile, vorrei dire che le comprendo. So bene che intraprendere un percorso psicologico può, talvolta, non essere semplice. Vorrei però condividere con loro una prospettiva: il coraggio vero, la forza reale, non risiedono nell’indossare maschere d’apparente invulnerabilità, ma nel mostrarsi autentici nonostante le debolezze. Ognuno di noi ha le proprie battaglie da affrontare, ferite da sanare e sfide da superare; se far fronte a tutto questo è cosa da deboli… allora con orgoglio lo dichiaro: voglio essere debole! Voglio riconoscere le mie paure, le mie insicurezze ed i momenti in cui mi sento sopraffatta. Perché solo attraverso questa apertura ed accettazione possiamo realmente crescere e scoprire le risorse che risiedono dentro di noi. In un mondo che spesso ci invita a nascondere le nostre parti più autentiche, chiedo a chiunque si riveda nella ragazza del bar di prendere in considerazione l’opportunità di chiedere aiuto. La vulnerabilità non ci indebolisce, ma ci rende umani. E proprio in questa umanità condivisa, nel riconoscere e nell’affrontare le sfide insieme, possiamo trovare il sostegno e la forza necessari per intraprendere un percorso di crescita.

Foto di mrsiraphol su Freepik